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IL CANTO GREGORIANO

Canto proprio della liturgia romana su testo tratto dalla Sacra Scrittura.
Arte musicale raffinata, non popolare, il canto gregoriano è monodico e ripudia gli strumenti. Costituisce un repertorio vasto, eterogeneo, per lo più anonimo, di circa 3000 melodie di epoche, forme, luoghi d’origine differenti. La storia del gregoriano si può dividere in vari periodi. Nei primi secoli i cristiani, provenendo da regioni culturalmente differenti, concorsero a formare riti e canti con caratteristiche diverse, e la chiesa di Roma, essendo legata alle chiese orientali, soprattutto a quelle greche, ne adottò la lingua e probabilmente anche i canti. Quando, verso la fine del sec. IV, essa si diede un rito proprio in latino, poco alla volta plasmò pure un proprio stile di canto, anche se con reminiscenze dei modelli giunti dall’Oriente. Perciò a Roma, lungo il sec. V, si andò formando un tipo di canto con forti influssi della musica ebraica, greca, bizantina. Tale canto, detto antico romano, è quello che confluirà più tardi nel canto gregoriano, ma per il sec. VII si parla ancora di canto romano. Verso il 753 gli antifonari romani (raccolte di testi letterari per i riti e i canti) passarono in Gallia, dove le melodie romane furono adattate ai gusti locali. Sarebbero queste le melodie che san Gregorio Magno, secondo una testimonianza di Giovanni Diacono (sec. IX), avrebbe fatto copiare e codificare in un antifonario archetipo, detto Antiphonarium cento. Il nome di canto gregoriano a ogni modo, fu usato per la prima volta solo alla fine del sec. VIII. Il repertorio di questo periodo primitivo è ritenuto il vero, autentito canto gregoriano e viene detto gallico-romanoi; a esso appartengono i canti del proprio della messa (Introito, Graduale, Tractus, qualche Alleluia, Offertorio, Communio) e, probabilmente, le Antifone e i Responsori dell’Ufficio.

Nel sec. IX Carlo Magno avviò un programma di espansione del canto gregoriano, che portò alla lenta eliminazione di altri riti e canti (come il gallicano e il mozarabico). In questo secondo periodo, che giunge fino al sec. XI, diversi monasteri divennero centri famosi per la diffusione del canto gregoriano (S.Gallo, Einsiedeln, Fulda, Tours, Corbie, Nonantola, Montecassino), si formarono i canti dell’ordinario della messa (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus, Agnus Dei) e fiorirono i tropi e le sequenze. Alla fine del sec. IX, con la nascita della scrittura musicale neumatica, le melodie, che fino ad allora si tramandavano oralmente, poterono essere ricordate con maggiore precisione e mantenersi esenti da infiltrazioni estranee. Ma dal sec. XI il canto gregoriano non poté evitare di subire i condizionamenti recati dalla musica trovadorica e dalla nascente polifonia, nella quale venne affermandosi l’uso di impiegare le melodie gregoriane per elaborazioni contrappuntistiche.

Dal sec. XVI alla prima metà del XIX si ebbe un periodo di decadenza del canto gregoriano, con varie alterazioni e mutilazioni delle melodie originarie; ne fu un esempio l’Editio medicea (1614-15) del Graduale, il libro contenente i canti della messa per tutto l’anno ecclesiastico. In essa i neumi furono interpretati misuratamente, cioè senza la libertà ritmica originaria, e i melismi (cioè i lunghi vocalizzi) vennero abbreviati. Una riedizione dell’Editio medicea fu effettuata tra il 1871 e l’81 ed è nota come Editio Ratisbonensis. Finalmente, a metà del secolo scorso i monaci benedettini dell’abbazia di Solesmes avviarono un’opera di ripristino del canto gregoriano per riportarlo all’integrità originaria. Si studiarono e si confrontarono i codici più antichi (secc. IX-X), promuovendo una più precisa interpretazione delle melodie, nonché una pratica esecutiva consona alla loro semplicità e purezza. Si avvertì inoltre l’esigenza di estendere la conoscenza dei codici a una più ampia cerchia di studiosi. Perciò, nel 1889, si cominciò a pubblicare la serie di volumi della Paléographie musicale, riproducenti in copia fotostatica gli antichi codici; mentre, a cura della Santa Sede, fu avviata nel 1905 la pubblicazione di una Editio vaticana delle melodie gregoriane ufficiali, scritte in note quadrate e senza segni d’interpretazione ritmica.

La teoria del canto gregoriano è basata su un sistema modale di otto scale, costituito da quattro modi detti autentici e quattro plagali, questi ultimi una quarta sotto gli autentici. A ogni modo autentico corrisponde un plagale, con cui ha in comune la nota ch funge da base alla melodia e da conclusione, detta finale. Si hanno così quattro finali, riferibili alle note  re, mi, fa, sol. Questa teoria fece la sua prima apparizione nei secc. VIII-IX e ricalca, in parte, il sistema teorico della musica bizantina. Circa il ritmo, poco si sa di sicuro. Tra le varie ipotesi, i benedettini di Solesmes (in particolare i gregorianisti Dom Guéranger, Dom Pothier e Dom Macquereau) adottarono la teoria del ritmo libero, proprio della declamazione, dando a ogni nota il valore di durata suggerito dalla pronuncia della sillaba. Negli ultimi decenni, gli apporti dell’etnomusicologia allo studio delle tradizioni musicali antiche hanno contribuito a un nuovo indirizzo nell’impostazione del problema, rappresentato dalla cosiddetta semiologia gregoriana, secondo la quale i neumi antichi non sono da intendersi come una forma “incompleta” e “imperfetta” di notazione, ma come la trascrizione grafica di una prassi esecutiva “orale” che investe la struttura musicale stessa nei suoi aspetti ritmico-musicali ed espressivi. Sul controverso problema del ritmo gregoriano questa nuova impostazione ha proposto soluzioni ancora diverse da quelle classiche del “ritmo oratorio” di Dom Pothier, del “ritmo libero” di Dom Macquereau, o da quella “mensurale” avanzata da altri.